Granito della Colonna
C’è un materiale antico, un “granito” che ha colpito particolarmente l’immaginario collettivo specialmente dei credenti di religione cristiana. Di questo materiale si sa poco, essendo stato poco utilizzato rispetto i “classici” materiali storici. Non si sa come fosse chiamato nell’antica Roma, ma i marmorari italiani l’hanno denominato il Granito della Colonna o della Flagellazione poiché la colonna realizzata con quel materiale ora conservata nella chiesa di San Prassede a Roma, sarebbe stata quella dove Gesù Cristo è stato legato per la sua flagellazione. Sufficiente. Poco importa che le sue dimensioni, meno di un metro, fossero più compatibili con quelle di un trapezoforo anziché con quelle di una colonna vera e propria….ma tanto è bastato per assurgere quella colonnina tra le reliquie più importanti del nostro tempo, e quel “granito” tra i più preziosi.
Descrizione macroscopica
È un materiale cristallino eterogeneo per il colore e per la grana, prevalentemente scuro con chiazze chiare. Esso è policromatico, essendo costituito da individui femici di colore nero rettangolari, aciculari, più o meno addensati, dispersi in una massa di fondo costituita da minerali bigio chiari, bianchi, localmente rosati. Prevalentemente esso si presenta scuro con rare chiazze chiare. I minerali scuri hanno dimensioni variabili da sub centimetriche a pluri-centimetriche, tanto da poter essere definito litotipo “pegmatoide”. La roccia ha aspetto compatto, massiccio, e sano.
Descrizione microscopica
Si tratta di una roccia olocristallina faneritica (ossia con cristalli visibili ad occhio nudo) a grana medio grossolana, poiché i minerali costituenti possono raggiungere anche dimensioni pluricentimetriche, con tessitura inequigranulare. I cristalli hanno forma variabile, sia euedrale e sia subedrale per quanto riguarda i minerali femici di colore scuro, mentre, specialmente per quanto riguarda i minerali costituenti la massa di fondo, essi sono prevalentemente anedrali, privi cioè di forma caratteristica tipica dell’individuo cristallino. Dal punto di vista dimensionale i cristalli sono molto eterogenei, essendo presenti sia individui pluri-centimetrici scuri e sia cristalli micrometrici. I fenocristalli scuri sono immersi in una massa di fondo costituita da individui che hanno dimensioni massime pari a 3 mm.
La roccia è in fase di alterazione e deformazione come si può notare dalla presenza di strutture coronitiche e di individui fratturati, mentre i bordi tra le fasi mineralogiche si presentano prevalentemente lobati o frangiati.
I costituenti fondamentali della roccia sono Feldspati ed Anfiboli.
Feldspati: sono generalmente in fase di alterazione anche spinta (saussuritizzazione), per il qual motivo non sono ben definibili e determinabili compositivamente, anche perché presentano, ampiamente diffuse, strutture di smistamento che interessano la maggior parte degli individui. Da analisi diffrattometrica si è determinato che sono principalmente costituiti da anortite sodica. Spesso presentano tessitura pecilitica poiché racchiudono individui cristallini di dimensioni micrometriche costituiti da anfiboli di neoformazione, epidoti e prodotti di alterazione non definibili a causa delle loro ridotte dimensioni.
Anfiboli: di due generazioni, sono presenti sia come fenocristalli costituiti da Orneblende che microscopicamente sono di colore verde, con forma prevalentemente euedrale e subedrale. Esse sono più o meno intensamente fratturate e deformate e con strutture coronitiche variamente sviluppate, nel qual caso presentano aspetto frangiato. È verosimilmente presente anche una tipologia di anfiboli di neoformazione, probabile Actinolite come fase legata ad un processo metamorfico blando sovrimposto alla roccia, compatibile anche con la presenza di Clorite ed Epidoti. Tale Actinolite costituisce per parte le strutture coronitiche delle Orneblende, dove si rinviene assieme alla Clorite, e come microcristalli fibrosi nelle aree di maggior alterazione tra le orneblende.
I costituenti minori sono:
Clorite sia di alterazione o di trasformazione metamorfica sovrimposta alle varie fasi cristalline orneblenditiche e sia con strutture fibrose raggiate, poste tra i vari individui anfibolitici; Epidoti di tipo Epidoto ss., riconoscibile per i colori di interferenza anomali, verosimilmente legato al metamorfismo sovrimposto al materiale; rara Ilmenite diffusa tra le fasi cristalline; Apatite in microcristalli; Calcite e Muscovite di alterazione, rari Zirconi, Titanite e Quarzo. Ci sono inoltre prodotti di alterazione di varie tipologie non definibili a causa delle loro esigue dimensioni.
La roccia può essere definita GABBRO DIORITE (Pegmatitica) in fase di metamorfismo.
Provenienza e geologia
Il Granito della Colonna o della Flagellazione proviene dalla parte settentrionale del Deserto Orientale egiziano. La sua cava, che si trova nel massiccio del Gebel Dokhan (“Monte Fumante”), è ubicata in prossimità dello Wadi Umm Shegilat. Ha coordinate N 26.9434 E 33.2500, e si trova a nord ovest rispetto le cave di Tonalite del Mons Claudianus e a sud ovest rispetto quelle della Porfirite Imperiale dei Mons Porphyrites.
Tale area, anticamente pertinenza della regione della Tebaide, è stata principalmente sfruttata durante il periodo Greco-Romano. Un’area desertica, rocciosa, dove forse erano impiegati gli schiavi o i “damnati”, persone cioè condannate e senza lunghe aspettative di sopravvivenza (Klein 1988). Dario Del Bufalo, nelle sue Nutulae Thebaicae pubblicate nel Catalogo della mostra tenutasi a Roma alla fine del 2002 (I Marmi colorati della Roma Imperiale) la descrive come una cava a cielo aperto con fronte di cava praticamente verticale e piano estrattivo superiore con un dislivello di circa 40 metri rispetto il piazzale sottostante dove il materiale veniva lavorato. Si presume che i blocchi fossero fatti scivolare direttamente fino al piazzale poiché non ci sono tracce di rampe di accesso al piano estrattivo superiore. Le operazioni di cava, guidate dal machinarius, l’ingegnere della cava, erano effettuate per mezzo di cunei sfruttando la struttura geomeccanica della roccia stessa.
Come Del Bufalo spiega nella sua descrizione, tale materiale doveva essere così prezioso da essere uno dei pochi, se non l’unico che già in cava era segato su almeno un lato del blocco per permettere un “collaudo” d’antan a chi era preposto alla scelta dei blocchi vista la rilevante differenza cromatica tra le parti esterne dei blocchi e il materiale sano sotto la parte corticale cromaticamente alterata. E questa segagione era effettuata usando segoni di ferro con sabbia ed il bene più prezioso che possa esserci in un deserto: l’acqua. Se a questo aggiungiamo la distanza della zona estrattiva dal Nilo e le scarse dimensioni dei blocchi estraibili possiamo, di fatto, ipotizzare che tale materiale fosse considerato, all’epoca, di gran pregio.
Del Bufalo, sempre nel suo lavoro, riporta l’esistenza di una seconda e più piccola cava posta a 400 metri più a nord di quella di epoca romana. Tale cava, molto piccola, è adesso rinaturalizzata e difficilmente distinguibile, tanto da far ipotizzare allo studioso che si tratti di una cava di epoca predinastica dalla quale provengono piccoli vasi e balsamari.
Gli attrezzi utilizzati per l’attività estrattiva erano a quel tempo, molto probabilmente, strumenti a percussione ricavati da pietre dure quali ad esempio dioriti o graniti provenienti dalle aree circostanti, mentre per i processi di lucidatura si utilizzavano mole realizzate con frammenti di arenaria silicizzata.
La strada che questo litotipo doveva seguire prima di arrivare a destinazione era sicuramente lunga e assai poco comoda, e forse per parte sfruttava quella già esistente che dai Mons Porphyrites arrivava al Nilo dove i blocchi, generalmente già sbozzati, erano imbarcati e trasportati via nave ad Alessandria, porto di partenza per il resto del mondo. (ph 19)
Dal punto di vista geologico, l’area di provenienza di questa gabbro-diorite fa parte del Basamento Precambrico che rappresenta l’area Nord Occidentale dello scudo Arabo-Nubiano, il quale a sua volta è parte della cintura orogenica Pan-Africana formatasi dalla fine del Proterozoico (600-700 milioni di anni).
In questa zona affiora la successione vulcano-sedimentaria tardo Neoproterozoica nella quale rientrano le rocce vulcaniche di Dokhan (620-650 milioni di anni) di cui il Granito della Colonna fa parte. Nel loro affioramento tali rocce vulcaniche sono associate sia a molasse sedimentarie, ma anche a granitoidi che costituiscono oltre il 40% del basamento complesso dell’Eastern Desert e che si sono intrusi in epoche differenti in un’ampia variabilità di formazioni rocciose che hanno contribuito a modificarne la composizione chimica.
I granitoidi egiziani calc-alkalini più vecchi, che comprendono masse plutoniche intrusive tonalitiche e granodioritiche, sono stati definiti sin orogenetici giacché considerati coevi all’orogenesi locale, mentre quelli più giovani, costituiti da porfirite rosa e da graniti rossi, sono stati datati come post orogenici.
Entrambi comunque sono considerati il prodotto di condizioni di subduzione all’interno di margini continentali attivi, del cui processo il Mar Rosso è il risultato più rilevante.
Usi del materiale
Conosciuto come “Granito della Colonna”, in realtà esso ha del granito solo il nome improprio poiché, come abbiamo visto, petrograficamente è un materiale molto più basico, caratterizzato cioè da basso tenore in Quarzo, e da Orneblende che in virtù delle dimensioni raggiunte permettono di aggettivare il suo nome scientifico con il termine “Pegmatitico”.
Poco conosciuto anche a causa del suo basso utilizzo nei secoli passati, è comunque un materiale che si presenta resistente, compatto e duro, macroscopicamente differente in funzione della concentrazione dei cristalli anfibolici scuri.
Il “Granito della Colonna”, talora archeologicamente definito “diorite bianca e nera”, come già ricordato non ha un suo nome romano, o per lo meno non lo si conosce, ma forse chissà, più prosaicamente non lo aveva e semplicemente faceva parte di uno dei 150 siti di estrazione presenti tra i Mons Claudianus e Porphyrytes. In realtà questo litotipo è stato solo raramente utilizzato in epoca predinastica e, pare, solo per realizzare vasi e balsamari.
Da quando è stato importato a Roma sotto la dinastia giulio-claudia (I sec. d.C.) ne è seguito un uso abbastanza frequente. Esso è stato utilizzato in lastre per la realizzazione di pavimentazioni, da ricordare ad esempio una lastra oblunga del pavimento della chiesa di S. Niccolò da Tolentino, indicata già dal Murray nel 1894. Sono state segnalate anche svariate colonne, anche segnalate in anni successivi rispetto la pubblicazione dell’opera del Murray, ad esempio quella del Ciborio dell’altare maggiore di San Saba e le due eccezionali colonne alte circa 3 metri nella Sagrestia della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, entrambe a Roma. Il materiale è stato utilizzato anche per la realizzazione di trapezofori, cioè sostegni di tavoli con sagome sia semplici sia più elaborate come a forma di zampe di grossi felini o altro, consuetudine questa che risale fin dal tempo dei fenici. E sembra che appunto da uno di questi trapezofori, poco più alto di sessanta centimetri gli provenga il nome, e cioè da quello portato a Roma nel 1223 dal Cardinale Giovanni Colonna di ritorno dalla Terra Santa, ora posizionato nella chiesa di S. Prassede dove, tra un tripudio di materiali lapidei di epoche e colori differenti esso spicca come reliquia venerata come la colonna alla quale fu legato Gesù Cristo durante la flagellazione.
Questo materiale è stato quindi utilizzato sia come elemento portante e sia nella realizzazione di piccola statuaria, ma, come accadde alla maggior parte dei materiali antichi, anch’esso subì il fenomeno del riutilizzo, ed eccolo quindi trasformato in elementi da rivestimento (opera sectilia e lastre pavimentali).
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